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martedì 12 marzo 2019

Suore di clausura Milano

Purtroppo, uno degli storici monasteri di suore di clausura di Milano è stato chiuso nel 2017. Si tratta del monastero delle monache Visitandine di via Santa Sofia, ossia delle seguaci di San Francesco di Sales e Santa Giovanna Francesca de Chantal (nell'immagine a lato). Si tratta di una grave perdita per Milano, poiché i monasteri di suore di clausura sono molto utili da un punto di vista spirituale poiché le monache, con le loro preghiere e penitenze, ottengono molte conversioni da Dio.

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Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez (1526 - 1616).

Dei grandi beni racchiusi nella vita religiosa e della gratitudine che dobbiamo a Dio: per averci condotti ad essa

   Dice il glorioso S. Paolo: «Fedele è Dio, e sia lodato e benedetto, egli che vi ha chiamati alla comunione del suo Figlio Gesù Cristo» (I Cor 1, 9). Una delle cose che Dio raccomandò ai figli di Israele quando li liberò dalla schiavitù dell'Egitto fu che si ricordassero del giorno in cui avevano ricevuto tanta grazia. E ci tenne tanto che comandò di celebrare in memoria di quella grazia ogni anno la Pasqua per otto giorni, molto solennemente, mangiando con speciali cerimonie un agnello in memoria di quello che fu ucciso quando furono liberati dalla schiavitù (Cfr. Es 12, 14 e 13, 3). Se Dio comandava ciò in memoria della libertà corporale, che non li fece certo migliori, che cosa non dovremo far noi in ricordo del giorno in cui la sua mano potente e pietosa ci trasse dalla prigionia in cui si trovava la nostra anima e ci pose in cammino verso la terra promessa, non quella terrena, ma quella celeste? Leggiamo infatti che il santo abate Arsenio celebrava ogni anno il ricordo del giorno in cui Dio gli aveva fatto la grazia di toglierlo dal mondo. E lo festeggiava così: Faceva la comunione, dava l'elemosina a tre poveri, mangiava qualche legume cotto e riceveva in cella tutti i fratelli.
   S. Agostino commenta a questo proposito ciò che disse Mosè al Faraone quando voleva che gli Israeliti sacrificassero al loro Dio in Egitto, senza uscirne fuori. Ciò non può essere, rispose Mosè, perché dobbiamo sacrificare ciò che gli egiziani adorano come dei, la vacca, il vitello, l'agnello e sarebbe abominevole che essi ci vedessero uccidere e sgozzare quello che essi adorano; ci lapiderebbero come blasfemi. È necessario che usciamo dall'Egitto e andiamo nel deserto, per sacrificare senza pericolo queste cose al nostro Dio. Così noi dobbiamo offrire in sacrificio al nostro Dio ciò che aborrono ed abominano gli uomini: la povertà, la mortificazione della carne, l'obbedienza e soggezione, l'essere disprezzati, in rinnegamento della nostra volontà. Queste cose non potremmo offrirle nel mondo, a costo di essere fischiati e lapidati, perché gli uomini di mondo odiano i poveri, i vili, i puri e li beffano (Lib. 2, quaest. sup. Exod. quaest. 28). Il Signore nella sua infinita bontà e misericordia ci ha fatta la grazia di trarci dall'Egitto e di portarci alla solitudine della vita religiosa, dove possiamo con questi tre voti offrire e sacrificare a Dio tutte queste cose, senza nessun nostro rischio, ma con grande onore e grande gloria e dove è più considerato e stimato chi in essa progredisce e si distingue.
   Perché comprendiamo meglio il nostro dovere di ringraziare il Signore per la grazia che ci ha fatta, esporremo qui brevemente alcuni dei beni che secondo i santi fanno la grandezza della vita religiosa. Il glorioso Gerolamo, commentando i versetti 6 e 7 del salmo 81: «Al suo trasmigrar dall'Egitto, quando venduto fu schiavo e accenti mai noti egli udì. Sottrassi alla soma le sue spalle, le sue mani smisero la corba», dice che la grande grazia che il Signore ci ha fatta è stata quella di liberarci dall'Egitto che è il mondo, facendoci preferire alla schiavitù e alla servitù del Faraone la libertà dei figli di Dio a cui siamo stati chiamati. «Eravamo schiavi di Faraone in Egitto, ma il Signore ci trasse dall'Egitto, che è il mondo, con la sua potenza» (Deut 6, 21). Quando eravamo in Egitto, cioè nel mondo, edificavamo le città del Faraone, tutte in mattoni, tenute insieme da creta e fango e tutta la nostra cura stava nel cercare paglia, che porta via il vento, per cuocere i mattoni. Non avevamo grano, ma soltanto paglia; non avevamo il pane celeste che viene dall'alto, ancora non avevamo ricevuta la manna del cielo; che carico pesava sulle nostre spalle! (HIERON. Breviar. in Psalmos). Quanto è pesante il carico del mondo, quante cure, quante fatiche per aver da mangiare, o al massimo per avere un ufficio onorevole. E per portare avanti tutto questo quante difficoltà, quante pretese, quante servitù, quanti complimenti! Quanto siano pesanti le leggi del mondo non lo comprende se non chi lo tocca con mano. Veramente bisogna portare sulle spalle un pesantissimo giogo di ferro. Dio tolse dalle nostre spalle un tale peso, ci liberò da quel giogo e ci impose un peso leggero e un giogo soave (Cfr. Matth 11, 30). Ci ha portato in una condizione, dove tutta la nostra occupazione consiste nell'amarlo e servirlo.
   Dice l'apostolo S. Paolo che «chi è ammogliato si dà pensiero delle cose del mondo e come possa piacere alla moglie, sicché rimane diviso» (1 Cor 7, 33). I coniugati sono impigliati in molte sollecitudini, perché devono pensare alle cose del mondo, ai loro beni e alla famiglia; il marito deve cercare di piacere alla moglie e la moglie al marito, e così non possono darsi completamente a Dio. Mentre chi vive nello stato di castità pone tutta la sua sollecitudine nel piacere al Signore e nell'essere santo nel corpo e nello spirito. Ora, se di chi osserva la castità nel secolo S. Paolo dice che ha soltanto cura di piacere al Signore e di essere santo nel corpo e nello spirito, che sarà dei religiosi, i quali liberati da Dio da tutte le preoccupazioni del mondo, non devono neanche pensare al necessario loro sostentamento, perché pongano tutta la loro sollecitudine nel piacere a Dio ed essere ogni giorno più santi? Dice S. Agostino che nel sacrificio di Abramo di una vacca, di una capra e un montone più una tortora e una colomba, era significato tutto questo: però gli animali della terra li divise a metà, ma gli uccelli non li divise, bensì li offrì interi. S. Agostino dice che gli animali della terra significavano gli uomini carnali, che sono divisi e tiranneggiati da molte cose; e che la tortora e la colomba, uccelli mansueti che non fanno male a nessuno, significano gli uomini spirituali e perfetti, sia i solitari, separati dalla conversazione degli uomini, che sono piuttosto simboleggiati dalla tortora, sia quelli che trattano con essi, che sono simboleggiati dalla colomba: questi tali non sono divisi, ma si consacrano completamente al servizio di Dio (De civitate Dei, 1. 16, c. 24). Adunque, questa è la grazia che ci ha fatta il Signore, di poterci offrire in modo totale in sacrificio d'olocausto a lui: non dobbiamo dividerci in altre cure, ma cercare unicamente come piacergli ogni giorno di più. Facciamo il voto di castità, come dice l'apostolo S. Paolo, per non avere compagnia a cui piacere, né famiglia da governare, ma perché tutta la nostra occupazione sia di venire ogni giorno migliori e più perfetti. Per lo stesso motivo facciamo il voto di povertà, con cui lasciamo le ricchezze del mondo, il desiderio e la sollecitudine che portano con sé, le spine, di cui Cristo nostro Signore parla nel S. Vangelo, che pungono ed inquietano (Luc 8, 7 e 14). S. Ambrogio dice che si chiamano divitias perché dividono il cuore (De Abraham, l. 2, c. 8, n. 60). Per questo stesso motivo facciamo il voto di obbedienza, col quale lasciamo noi stessi, la nostra volontà e il nostro giudizio, giacché non dobbiamo avere progetti, né preoccupazioni di quello che ci riguarda, perché questa cura deve averla il superiore nelle cui mani ci mettiamo come in quelle di Dio, in modo che noi possiamo preoccuparci soltanto di quello che riguarda il nostro progresso.
   S. Gerolamo commentando il versetto del salmista «Orsù, benedite il Signore, voi tutti servi del Signore che abitate il Tempio del Signore!» (Ps 134, 1), dice che come un signore di questo mondo ha molti servi differenti l'uno dall'altro, perché alcuni lo servono in casa e altri nei campi, così Dio nostro Signore ha molte varietà di servi; alcuni lo assistono sempre nella sua casa e stanno alla sua presenza, altri lavorano nei campi. I religiosi, dice il santo, sono i servi che dimorano nella casa del Signore, stanno sempre davanti a lui, trattano ogni giorno con lui, sono i suoi intimi; mentre i secolari, che vivono nel mondo, sono i suoi coloni. E continua il paragone dicendo che i servi di campagna, braccianti e coloni, quando vogliono trattare qualcosa col loro signore, devono servirsi come di intermediari dei suoi favoriti, che lo vedono tutti i giorni e stanno con lui. Così i secolari, quando si trovano in qualche necessità e vogliono ottenere qualcosa da Dio, ricorrono ai religiosi, perché parlino a Dio di quell'affare, preghino per quella loro necessità, essendo essi i favoriti, per la cui intercessione Dio fa loro la grazia. E ancora: come i braccianti di campagna sono quelli che lavorano, arano, zappano per gli altri, che godono nel palazzo del loro signore, così fanno i secolari verso i religiosi: lavorano, si affannano, accumulano e conservano, perché i religiosi possano nutrirsene con pace e riposo (Breviar. in Ps 133).
   S. Gregorio dice che lo stesso significato ha la vita di Esaù e di Giacobbe, di cui la Scrittura dice che «Esaù diventò un buon cacciatore e un uomo della campagna, mentre Giacobbe, uomo semplice, se ne stava sotto la tenda», o in casa, come dice un'altra versione (Gen 25, 27). Per Esaù, cacciatore e contadino, devono intendersi i secolari, sempre occupati e distratti nelle cose del mondo; per Giacobbe, uomo semplice, che rimaneva in casa, gli spirituali e i religiosi, che sempre raccolti in se stessi, trattano ciò che conviene alle loro anime e sono amati e vezzeggiati da Dio, come lo era Giacobbe dalla madre Rebecca (Mor., l. 5, c. 7, n. 20). Dunque consideriamo qui il gran dono che ci ha fatto il Signore, mettendoci in uno stato tanto superiore a quello dei secolari, che sono paragonati ai contadini, mentre noi siamo gli intimi e favoriti della casa. Possiamo con molta ragione ripetere ciò che disse la regina di Saba, vedendo l'ordine e l'armonia che regnava tra i servi di Salomone: «Beate le tue donne e fortunati i tuoi servi che stanno sempre dinnanzi a te e possono ascoltare la tua sapienza!» (I Reg 10, 8). Beati i religiosi che stanno nella casa del Signore, trattano spesso con lui e godono della sua sapienza.
   Possiamo da ciò dedurre quanto siano ciechi quelli che pensano di aver fatto molto lasciando il mondo ed entrando in religione e pare vogliano farne carico a Dio come se avessero fatto molto per lui. S'ingannano grandemente: sono stati loro a ricevere un gran dono da Dio che li ha tolti dal mondo e scelti per la sua casa, per una così nobile condizione; sono essi i debitori, obbligati a mostrarsi grati e a corrispondere per così elevato beneficio. Se il re chiamasse un dignitario della sua corte per affidargli un ufficio d'importanza, questo tale non penserebbe certo di aver fatto gran che lasciando la sua casa e la sua terra, né che il re gli sia debitore di qualche cosa; anzi comprenderebbe che gli è fatto un onore nel servirsi di lui, chiamandolo per quell'ufficio, e aggiungerebbe quel favore agli altri ricevuti dal re per mostrargli la sua gratitudine e servirlo meglio. Così dobbiamo fare anche noi; non siamo stati noi a scegliere Dio, ma egli ha scelto noi e ci ha fatto una grazia così segnalata senza che lo meritassimo.
   Che hai trovato in noi, o Signore, per averci scelto a preferenza dei nostri fratelli che hai lasciato nel mondo? Che c'era in noi che potesse piacerti? Hai visto qualcosa, perché ci hai scelti; Dio vide qualcosa che gli piacque, perché ci scelse. Ma qualcuno ci dirà: Bada bene a quel che dici! I teologi affermano che nella predestinazione di Dio non c'è alcun principio da parte nostra. S. Agostino spiega ciò con un paragone: uno scultore vede in una montagna un tronco d'albero tagliato, lo fissa e si ferma. Gli piace? È segno che vuole farne qualcosa perché non lo ha guardato né si è fermato, né gli è piaciuto per lasciarlo tronco rozzo come era; i suoi occhi di artista già vedono che cosa diventerà quel tronco. Oh, dice, che bella statua diventerà quel tronco! Ecco ciò, che ha amato, ciò che gli è piaciuto, non il tronco grezzo e brutto che era, ma la statua bella e perfetta che sarebbe divenuta. Dio, dice il santo, ci ama pur essendo noi cattivi e peccatori, non per lasciarci il legno secco, brutto e inutile che eravamo; come a tronco tagliato dalla montagna, l'artefice sovrano ci guardò e pensò a quello che saremmo divenuti. Questo gli piacque, questo contemplò, non quello che eri, legno secco, grezzo e brutto, ma ciò che avrebbe fatto di te. Voleva quel sovrano artefice che creò il cielo e la terra, fare di quel legno deforme una statua molto perfetta; voleva farne un'immagine molto conforme al Figlio suo, un'immagine che somigliasse allo stesso Dio (Tract. 8 sup. Epistolam Joannis, n. 10). Per questo posò il suo sguardo su di te, a questo scopo ti scelse. «Non siete voi che avete eletto me, ma io ho eletto voi e vi ho destinati, perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia duraturo» (Io. 15, 16). Guarda che immagine perfetta volle fare di te e quanto simile al Figlio suo, se ti ha scelto per lo stesso compito che ha avuto il Figlio nel mondo: guadagnare le anime!
   Commentando poi il primo versetto del Salmo 136 dice qualcosa che viene qui molto a proposito: «Là sui fiumi di Babel sostammo, piangendo al ricordo di Sion»; i fiumi di Babilonia sono le cose di questo mondo caduche e periture, che scorrono e passano presto. C’è differenza tra gli abitanti di Babilonia e quelli di Gerusalemme: i primi sono immersi nel fiume di Babilonia, nèlle cose del mondo, tra tempeste e pericoli; i secondi, che vogliono essere i cittadini della Gerusalemme celeste, vedendo i pericoli e rischi di questo fiume babilonese, i venti e le tempeste, i flussi e riflussi, ne escono fuori, per non trovarsi tra i guai e se ne stanno seduti sulle rive. Questi tali sono i religiosi che hanno fuggito i pericoli del mondo e se ne stanno seduti sulle rive, piangendo e lamentandosi. Che significano questo pianto e questo lamento? Prima di tutto, dice il santo, piangiamo il nostro esilio: vedendo le onde e le tempeste di questo fiume di Babilonia, pensiamo con nostalgia a quella Gerusalemme celeste che è la nostra patria. O santa Sion, in cui non ci sono mutamenti, né flussi, né pericoli, ma tutto è stabile e saldo nella sua essenza! Chi ci ha portati in questi precipizi? Come mai siamo qui in esilio, lontani dalla nostra terra, separati dalla compagnia del nostro Creatore? Quando saremo liberi, quando finirà il nostro esilio, quando staremo sicuri nella nostra patria?
   In secondo luogo, dice il santo, piangiamo quelli che il fiume ci strappa e porta via con sé. Sono nostri fratelli quelli che sono immersi nel fiume del mondo tempestoso, li trascinano le correnti, le onde li fanno sbattere contro le rocce e i dirupi e non si fermano finché non li abbiano sprofondati. Ne vediamo annegare ogni giorno a migliaia, cadono come fiocchi di neve ­ dice un altro santo - che vide in spirito le anime scendere all'inferno (BLOSIUS, Monile Spirit. c. 1, n. 21). Chi non piangerebbe tanta perdita? Ci possono mai essere viscere tanto dure da non commuoversi per la compassione vedendo perire tante anime? (Enarr. in Ps 136, n. 3-4).
   Terzo, siamo seduti sulle rive di questo fiume per aiutare i nostri fratelli, per porgere la mano a quelli che pericolano, per vedere se possiamo pescare e salvare qualcuno di quelli che annegano: tale è il nostro ufficio; a questo ci chiama il Signore, ad essere pescatori di anime (cfr Matth 4, 19); a questo scopo ci ha posto sulle rive della Compagnia, per pescare le anime, per offrire la mano a quelle che stanno per annegare. Ora, da una parte, consideriamo la grazia grande che il Signore ci ha fatto, differenziando ci tanto da quelli del mondo i quali san sempre nel corso, mentre noi ce ne stiamo sicuri nel porto, essi corrono in questo immenso gorgo con pericolo di perdersi e di annegare ogni momento, e noi stiamo sulla riva per aiutarli e dar loro una mano per salvarsi. E volgiamo dall'altra parte gli occhi a noi, considerando che coloro che devono aiutare i fratelli perché non affoghino, devono essere abili nuotatori, altrimenti affogano anch'essi: la furia della morte strappa quello che si afferra all'altro e li travolge entrambi. Gran destrezza deve avere nell'arte di guadagnare le anime e virtù perfetta chi vuole salvare gli altri dal pericolo senza caderci anche lui.
   Di S. Anselmo si racconta che, stando una volta in estasi, vide un enorme fiume che gonfio d'acqua precipitava furioso; in esso entravano tutte le immondezze e nefandezze di tutta la terra con tale abbondanza che non poteva immaginarsi cosa più sporca, più puzzolente e più insopportabile; quelle acque erano di tal natura e furia che trasportavano tutto ciò che incontravano, senza che si potesse porvi rimedio, uomini e donne, ricchi e poveri: tutti erano sommersi ed affondati in un momento, poi con la stessa prestezza riportati in alto e ancora una volta sommersi senza che avessero un attimo di respiro. Stupito per quello strano spettacolo, mentre si domandava come si sostentasse quella gente e di che vivesse, perché in fondo erano sempre vivi, gli fu risposto che quei disgraziati si cibavano del fango stesso in cui erano immersi, che lo bevevano e ciò non ostante erano contentissimi. Interpretando quella visione, una voce gli disse: Quel fiume torrentizio è il mondo, nel quale gli uomini ciechi sono rivoltati tra le ricchezze e gli onori, tra i diletti carnali e disonesti; e sono così miserabili che, pur non avendo in tali sozzure dove posare il piede, vivono contenti e si stimano beati. Poi il santo fu portato in un giardino recinto, di grande ampiezza, le cui pareti, coperte di splendido argento, brillavano meravigliosamente; nel mezzo c'era un prato ben tagliato, non di erbe comuni, ma di oro finissimo, vive e morbide a tal punto che accoglievano soavemente e senza difficoltà chi si sedeva su di esse, e si umiliavano sotto di lui, piegandosi fino a terra; né per tale umiliazione si sciupavano, ma appena quello che si era seduto si alzava, spontaneamente tornavano a raddrizzarsi anch'esse, nella primitiva posizione. L'aria era piacevole e fresca e tutto quel che vi si trovava era così soave che sembrava di trovarsi realmente in un paradiso, in cui non c'era da desiderare altro che la beatitudine. Fu detto al santo che quello era lo stato religioso rappresentato al vivo (EADMERUS, Vita S. Ans., l. 1, c. 4).

[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di virtù cristiane" di Padre Alfonso Rodriguez, SEI, Torino, 1931].