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lunedì 1 aprile 2019

I voti vanno rinnovati con gratitudine


Dagli scritti di Padre Alfonso Rodriguez (1526 - 1616).


Inoltre, i voti vanno rinnovati con gratitudine per il beneficio ricevuto, come abbiamo detto più su (Capo VI) parlando del beato Arsenio. Celebriamo durante l'anno questa doppia festa in ringraziamento, in ricordo e in riconoscimento dell'enorme beneficio che il Signore ci ha fatto togliendoci dal mondo e conducendoci nella Religione, principio di ogni nostro bene e segno della nostra predestinazione. Come ogni anno la Chiesa fa gran festa nel giorno della Dedicazione di un Tempio materiale, così è giusto che celebriamo anche noi la dedicazione della nostra anima, che è tempio vivo di Dio.
   E poiché il miglior modo di mostrare la propria gratitudine è mostrarla con le opere (Part. 2, trat, 7, c. 6; trat. 8, c. 5), l'atto di rinnovazione di cui stiamo parlando sarà molto gradito a Dio, se sarà fatto come si deve, cioè cercando di corroborarci nell'esercizio dei nostri voti, e di osservarli meglio per l'avvenire. Questo, come dice S. Gregorio (Moral. l. 22, c. 4), è quello che l'apostolo S. Paolo vuol dire con l'espressione: «Rinnovatevi nello spirito» (Eph. 4, 23), e questo chiede il nostro santo Padre: rinnovamento spirituale, non soltanto esteriore, a parole. Quando un'immagine è diventata vecchia e scolorita e quasi non si vedono più le forme e le figure, la si rinnova, dandole nuovi colori e sfumature e diventa così piacevole e bella come se fosse fatta di fresco. Anche noi andiamo invecchiando, ci stanchiamo, quasi perdiamo vigore: il nostro corpo corruttibile, la natura coro rotta e incline al male ci trascinano e vorrebbero farci seguire le loro tendenze e i loro appetiti (cfr Sap 9, 15). È necessario che ritorniamo in noi stessi, che ci rinnoviamo nei propositi e nei desideri. Se vogliamo che in noi le virtù non perdano vigore, è necessario, dice ancora S. Gregorio, che ogni giorno facciamo conto di cominciare daccapo. Ricordati del proposito, del fervore e dello slancio con cui cominciasti quest'impresa, con cui entrasti nella vita religiosa e ricomincia con lo stesso impeto e con lo stesso intrepido coraggio. Ecco che cosa significa rinnovarsi: ciò sarà anche un bel ringraziamento per il beneficio ricevuto e sarà molto gradito a Dio.
    Cassiano riferisce una breve e compendiosa esortazione fatta dall'abate Panuzio per l'ingresso di un novizio alla presenza degli altri religiosi e che ciascuno può applicare a se stesso, con molto vantaggio per lo scopo di cui stiamo parlando: «Ti sei ormai dato ed offerto tutto a Dio, rinunziando alle cose del mondo; guardati dal riprendere quello cui hai rinunziato (Cass. De institut. renunt. 1. 4, c. 36). Hai rinunziato ai beni col voto di povertà; non tornare ad affezionarti ai nonnulla qui in religione, perché ti gioverebbe poco aver lasciato le cose grandi, se poi ricercassi le piccole. Hai rinunziato alla tua volontà e al tuo giudizio col voto di obbedienza: guardati dal riprenderteli, anzi dì con la Sposa dei Cantici: Eccomi spogliata della mia volontà e del mio giudizio; non voglia mai Iddio che torni ad esser mio. Hai rinunziato e abbandonato i diletti, i piaceri e i divertimenti del mondo e della carne; guardati dal farli rientrare. Hai disprezzato la volontà, la superbia e la stima del mondo: sta bene attento che non resuscitino in te, quando sarai diventato un anziano, un sacerdote, un professore o predicatore; abbi cura di non riedificare ciò che avevi smantellato e distrutto, come dice l'apostolo (Cfr. Gal 2, 18), perché sarebbe come tornare indietro dopo aver posto mano all'aratro; ma persevera fino alla fine nella povertà e nudità che hai promesso a Dio, nell'umiltà e pazienza in cui hai perseverato per tanti giorni, chiedendo con lacrime di esser ricevuto.
    I santi Basilio, Bernardo e Bonaventura aggiungono un altro motivo: Bada che non sei più tuo, ma tutto quello che hai è di Dio (BASIL. Reg. fusius disputat. 19; serm. de abdicatione rerum. - BERNARD. serm. 19 in Cantic. - BONAV. de informat. novitior. c. 2); perché ormai ti sei offerto e consegnato completamente alla sua divina maestà per mezzo dei voti. Pertanto, guardati dal riprenderti abusivamente quello che avevi dato, perché sarebbe un furto: prendere l'altrui contro la volontà del suo proprietario, è rubare! Non abbiamo detto più su che chi entra in Religione dà a Dio l'albero con i suoi frutti? Ora, se uno desse ad un altro un albero, trapiantandolo dal suo orto, e poi andasse a prendere i frutti, non farebbe un furto? Ebbene, questo fa il religioso che fa la sua volontà, e non quella del superiore; e per di più, dicono, è un sacrilegio, perché si tratta di cosa offerta a Dio; è un furto sacrilego, molto odiato da Dio che ce lo dice per bocca del Profeta Isaia: «Perché io sono il Signore, che amo la giustizia, e odio la rapina nell'olocausto» (Isa. 61, 8). Nell'olocausto che è tutto di Dio, che è stato offerto alla sua maestà, chi osa rubare? S. Bernardo dice che non c'è sacrilegio peggiore del riprendersi la volontà offerta a Dio per voto, perché quanto maggiore è l'offerta, tanto più grave è il furto che si commette nel riprenderla.
   Aggiungiamo qui quanto si aggiunge nella legge dell'olocausto. A tal punto Dio voleva che nell'olocausto fosse tutto offerto a lui e bruciato in suo onore, che comandava che dopo l'offerta si tornasse ad offrire e a bruciare quelle ceneri, perché, se ci fosse rimasto qualche ossicino o qualche pezzetto di carne si consumassero completamente e divenissero cenere. Ecco dunque, quel che facciamo noi: vogliamo rioffrire una seconda ed una terza volta l'olocausto già offerto in principio, perché, se ci fosse rimasto qualcosa, un ossicino, una grossezza o una scheggia, si consumi completamente e diventi cenere, in onore di Dio (Lev 6, 11).
   S. Agostino commenta a questo proposito il versetto del Genesi: «Il Signore Iddio prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen. 2, 15). Vediamo, dice il santo, che cosa lo Spirito Santo vuole dirci con ciò. Volle forse che Adamo esercitasse l'agricoltura, zappasse la terra e la coltivasse? Non è da credere, che, prima del peccato, fosse obbligato da Dio a quei lavori (Lib. 8, sup. Gen.). Sebbene qualche lavoretto sotto forma di trattenimento, come sogliono far molti nei loro orti o nei giardini, non fosse contrario a quello stato di innocenza, pure una costrizione, sotto lo stimolo della necessità, non si addiceva a quello stato, né era necessaria perché la terra dava il suo, frutto senza lavoro. Che significa allora che Dio mise l'uomo nel paradiso perché lo custodisse? Da chi doveva guardarlo, se non c'era nemico da temere? Né doveva guardarlo dagli animali, perché prima del peccato essi non facevano nessun male né all'uomo né alle sue cose. E se ciò fosse stato da temere, non lo avrebbe certo potuto fare un uomo solo, in un luogo grande come il paradiso, contro tanti animali quanti ce n'erano; sarebbe stato necessario un recinto così grande che non vi potesse entrare il serpente, e, prima di farlo, sarebbe stato necessario cacciar fuori tutti i serpenti e tutti gli altri animali che c'erano dentro. Non bisogna dunque intendere che Dio abbia messo l'uomo nel paradiso per farlo custodire materialmente e zappare o arare. Allora, che vuol dire «perché lo coltivasse e lo custodisse?» Lo vuoi sapere, chiede il santo? Vuol dire che Dio pose l'uomo nel paradiso perché vi mettesse in pratica i precetti che gli aveva dato, e praticandoli si conservasse il paradiso, senza perderlo, come lo perdette, perché non li mise in pratica.
   Applichiamo ora tutto ciò al nostro proposito. Perché credi che Dio ti abbia introdotto nel paradiso della vita religiosa, che da molti è chiamata un santo paradiso? Lo vuoi sapere? Perché tu vi pratichi i precetti e i comandamenti di Dio e i consigli evangelici, contenuti nelle nostre regole; e perché mettendoli in pratica, tu ti conservi questo paradiso senza perderlo, come lo hanno perduto quanti non hanno saputo custodirlo.
   S. Agostino dà di queste parole anche un'altra spiegazione: Esamina molto bene che non dice la Scrittura: Lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse (il giardino), ma che il pronome lo si può riferire anche all'uomo. A S. Agostino piace di più questa interpretazione. Dio non pose l'uomo nel paradiso perché lavorasse e custodisse quel luogo, ma per lavorare Dio e custodire lì l'uomo. Come si dice che l'uomo lavora la terra, non perché la fa essere terra, ma perché la rende fruttifera coltivandola, così, e con maggior ragione, si dirà che Dio, il quale creò l'uomo dal nulla, lo lavora quando lo fa giusto, santo e perfetto. A questo scopo lo mise nel paradiso terrestre, per continuare a lavorarlo e perfezionarlo e per custodirlo fino al giorno in cui dal paradiso terrestre lo avrebbe trasferito in quello celeste, dandogli la beatitudine. Allo stesso modo, non credere che Dio ti abbia condotto nel paradiso della religione, perché tu debba lavorarlo e custodirlo, ché esso ha ortolano e difesa migliori, ma per lavorare te, per far di te un uomo mortificato, uno spirituale, per farne un uomo santo e perfetto, e poter ti così trasferire da questo paradiso terreno a quello celeste.
   Con queste ed altre simili considerazioni dobbiamo aiutarci per corrispondere alla grazia di quest'atto di rinnovazione dei voti e conseguirne il frutto. E se dovesse spaventarti il lavoro della vita religiosa, ricordati del premio che ci è promesso (cfr. Hebr. 10, 35). S. Francesco, esortando e rianimando i suoi frati, soleva ripetere spesso: Fratelli miei, è cosa grande quella che abbiamo promessa; ma maggiori sono quelle che ci sono state promesse; osserviamo quella e sospiriamo per queste (Hist. Minor. p. 1, l. 1, c. 51). Quando i frati fanno professione a Dio con la promessa dei voti, il superiore dice loro: Anch'io ti prometto la vita eterna. Anch'io, da parte di Dio, ti prometto la vita eterna se custodirai la tua promessa, e te lo prometto con cedola firmata da Cristo stesso, il quale ha detto nel santo Vangelo: «Avrai un tesoro» grande e abbondantissimo nel cielo (Matth 19, 21).


[Brano tratto da "Esercizio di perfezione e di virtù cristiane" di Padre Alfonso Rodriguez, SEI, Torino, 1931].